Se jo vès di maridami
Continuando col “raccontare” i canti del repertorio del
“Marmolada” è la volta di un canto friulano, o meglio, carnico. E parlo di “Se
jo vès di maridâmi” (Se dovessi sposarmi). E’ stato inserito in repertorio appositamente
per la tournée argentina del 1988 e questo perché sapevamo che oltreoceano
avremmo trovato molti friulani, cosa, che effettivamente, si dimostrò esatta.
E’ un canto popolare e l’edizione che noi cantiamo è
stata armonizzata da Antonio Pedrotti ed eseguita per prima dal Coro della
S.A.T. di Trento; per questo è diventato conosciuto anche fuori dai confini del
Friuli.
Il motivo allegro accompagna un testo che non è altro
che una serie di considerazioni che una ragazza carnica fa in vista di un possibile
matrimonio.
Se jo vès di
maridâmi,
un cialiâr no
cjolares.
ancje me mi
batares.
Cun chei quatri
ch’al guadagne
nol mantèn nàncje
un polez.
benedez i lor paìs.
Questo è il testo che, tradotto, dice pressappoco
così:
“Se dovessi sposarmi, non prenderei un calzolaio. Lui
è capace soltanto a battere suole e batterebbe anche me. Con quei quattro soldi
che guadagna non mantiene neppure un pollo. Benedetti i carnici, benedetti i
loro paesi.”.
Ma i canti popolari, quelli veramente popolari, hanno
più versioni in quanto, nei secoli scorsi, i testi e le musiche, trasportati da
un luogo ad un altro da viaggiatori e mercanti, venivano appresi e modificati
con l’andare del tempo, adattandoli al momento, alle esigenze del linguaggio
alle vicende paesane ed a tante altre cose.
Nell’est’estate del 1999, durante il mio soggiorno in
Carnia, ho fatto un po’ il topo di biblioteca e, su pubblicazioni specializzate
di qualche anno addietro, ho trovato ben cinque testi diversi raccolti in
altrettanti paesi di vallate diverse.
Se nella nostra edizione i carnici sono benedetti, la
ragazza di Piano d’Arta (Valle del But), invece, non vuole un conterraneo
perché:
… lui al quinze la
mignestre
siet, vot voltis
cun tun vuès
(… lui condisce sette, otto volte la minestra con lo
stesso osso). In effetti la ragazza
riconosce la parsimonia della gente di montagna friulana, caratteristica questa
dovuta senz’altro alle difficoltà di vita e di lavoro che, sempre, hanno
contraddistinto questa regione.
Ma se andiamo ad Ampezzo, nella Valle del Tagliamento
alla confluenza con il torrente Lumiei, proveniente dal lago di Sauris, il
testo raccolto da Franco Escher nell’ottobre del 1933, dice:
… nò in Sauris nò
larès:
‘a è la blava tant
lontana,
si consuma piel e
vuès.
(… no, non andrei a Sauris; là il fieno è tanto
lontano che, per raccoglerlo, ci si consuma pelle e ossa.). Ed anche qui si riscontrano la difficoltà di campare
e la fatica del lavoro.
Ma c’è anche chi la prende con allegria ed allora, a
Priola, sempre raccolti da Franco Escher, i versi sono:
… vores cjoli un
picinin;
vores fâj las
braghessutes,
con tun brac’ di
ragadin.
(… vorrei prendere un piccolino; vorrei fargli i
calzoncini / con un braccio di tela).
Abbiamo quindi la versione di Paluzza (alta Valle del
But),
… Un fi sôl no
cjolarès;
lui mi mangjarès la
dote,
poi mi mande a
raspâ uès.
(… un ragazzo solo non prenderei; lui mi mangerebbe la
dote, poi mi manderebbe a raspar ossi.),
dove “ fi sôl” significa figlio unico, quindi viziato; questi finirebbe
col dilapidarle la dote per poi lasciarla in miseria.
Ed infine un’ultima edizione, della quale non viene
riportata la provenienza, forse più moderna ed adattata alla città; infatti
riprende l’edizione di Paluzza e sostituisce “un cjargnel” con “un student”
che, e mi riferisco soprattutto agli studenti di una volta, erano sempre senza
soldi.
Sergio
Piovesan