Il Gazzettino                                                                                                                                                                        Sabato, 16 Giugno 2007

 

Leggo sul Gazzettino il fondo di Sabino Acquaviva ed il suo invito al dibattito.

Del resto, il tema non solo è affascinante, ma è oggi di primissimo rilievo.

Oltre un lustro addietro, in un raffinatissimo saggio (La pace perduta) Sergio Romano, al quale non sono certo imputabili incrostazioni ideologiche o mire secessioniste, sentenziava lapidario che "lo stato nazionale non è mai esistito", spiegando, in sostanza, che esso altro non è se non il frutto della prevaricazione di un "gruppo dominante" su altri: i franchi dell'Ile de France in Francia, i castigliani in Spagna, i prussiani in Germania, i piemontesi in Italia. Quei gruppi dominanti inventarono un prodotto artificiale che chiamarono Nazione, al quale imposero una lingua che chiamarono "nazionale", declassando le altre lingue in dialetti.

Tali nazioni autoreferenziali hanno destrutturato l'Europa, frammentandola in gruppi, alcuni portatori di odio e follia, dei quali è tragica testimonianza quell'Apocalisse di stragi e distruzione che fu il XX secolo.

Ma lo stato nazionale sta inesorabilmente arretrando. L'onda di retorica e violenza, nutrita dal mito dell'unità ed indivisibilità della Nazione e dalla fola dei "confini naturali", ha esaurito la propria forza d'urto.

Ciò è ancor più vero in Italia, dove - piaccia o meno - lo stato unitario è sempre stato fragile, poiché realizzato da una conventicola di massoni che ha imposto simboli e modelli che erano stati costruiti oltr'alpe sull'ecatombe di teste mozzate, sul genocidio della Vandea e sull'invasione dell'intera Europa, disseminata di cadaveri. Tra quei simboli spicca persino la bandiera, il tricolore, che è (spero di non scandalizzare nessuno con un dato che dovrebbe essere notorio) gentile concessione del giacobinismo francese. Insomma, un artificio che, per noi veneti, ha significato l'abdicazione a mille e quattrocento anni di storia di popolo indipendente; un popolo che forgiò persino un proprio diritto, plurisecolare, ostinatamente rifiutando - unico in Europa - l'applicazione del diritto romano.

Di questi passaggi i veneti sono i primi responsabili, avendo svenduto la propria identità che pur pareva fortissima in uno stato che, nel segno di San Marco rispettoso di autonomie e tradizioni, si estendeva dal Po, all'Adda, all'Isonzo, dall'Istria, alla Dalmazia, alle Ionie, laddove ancor oggi troneggiano quelle che il Vate definì "le mura impresse del Leon corroso".

Ed ora che le massime espressioni della sovranità, il batter moneta ed il governo dell'economia, sono in mani sovranazionali, lo stato nazionale, che Romano definisce "sempre più anacronistico e obsoleto", è in via di estinzione.

Le sue enormi falle sono prodotte dall'esterno e dall'interno per ragioni ontologiche.

Nessun nemico alle porte; solo lo sfacelo naturale di una forzatura in agonia.

La stessa sempre crescente - e tumultuosamente crescente - domanda di autonomia costituisce il segno di un processo irreversibile di erosione che solo ignoranza o malafede non possono o vogliono riconoscere.

È un'erosione carsica, di cui è testimone, in questi tempi, la sorda ma cruda lotta tra regioni del nord e regioni del sud per questa finzione di autonomia nota come federalismo fiscale; non a caso è una lotta di cui Il Gazzettino ci informa dettagliatamente e che, invece, è totalmente silenziata dalla maggior parte dei media italiani.

Non resta, dunque, che guardare a quanto sta avvenendo in Scozia o in Catalogna, i cui eventi spiegheranno comunque effetti trainanti su tutte le aree d'Europa che rivendicano autonomia e, così, recuperare a piene mani quell'immenso tesoro che è costituito dalla storia veneta, per farne il nuovo punto di partenza del cammino di riscoperta delle radici negate.

Un tale processo presuppone una nuova classe dirigente consapevole e capace di fare lobbie culturale ed economica.

Ecco perché sono entusiasta che un pezzo così importante del mondo accademico veneto, quale il prof. Acquaviva autorevolmente rappresenta, incominci a muoversi con decisione in questa direzione, che implica, tra le prime bisettrici, la riscoperta della lingua.

Se alle nostre generazioni, imbibite di retorica rinascimentale, non è stato concesso, i nostri figli debbono sapere. Se non ora, quando?

Renzo Fogliata