Leggo sul Gazzettino il fondo di Sabino Acquaviva ed il suo
invito al dibattito.
Del resto, il tema
non solo è affascinante, ma è oggi di primissimo rilievo.
Oltre un lustro
addietro, in un raffinatissimo saggio (La pace perduta) Sergio Romano, al
quale non sono certo imputabili incrostazioni ideologiche o mire
secessioniste, sentenziava lapidario che "lo stato nazionale non è mai
esistito", spiegando, in sostanza, che esso altro non è se non il
frutto della prevaricazione di un "gruppo dominante" su altri: i
franchi dell'Ile de France in Francia, i castigliani in Spagna, i prussiani
in Germania, i piemontesi in Italia. Quei gruppi dominanti inventarono un
prodotto artificiale che chiamarono Nazione, al quale imposero una lingua
che chiamarono "nazionale", declassando le altre lingue in
dialetti.
Tali nazioni
autoreferenziali hanno destrutturato l'Europa, frammentandola in gruppi,
alcuni portatori di odio e follia, dei quali è tragica testimonianza
quell'Apocalisse di stragi e distruzione che fu il XX secolo.
Ma lo stato nazionale
sta inesorabilmente arretrando. L'onda di retorica e violenza, nutrita dal
mito dell'unità ed indivisibilità della Nazione e dalla fola dei
"confini naturali", ha esaurito la propria forza d'urto.
Ciò è ancor più vero
in Italia, dove - piaccia o meno - lo stato unitario è sempre stato
fragile, poiché realizzato da una conventicola di massoni che ha imposto
simboli e modelli che erano stati costruiti oltr'alpe sull'ecatombe di
teste mozzate, sul genocidio della Vandea e sull'invasione dell'intera
Europa, disseminata di cadaveri. Tra quei simboli spicca persino la
bandiera, il tricolore, che è (spero di non scandalizzare nessuno con un
dato che dovrebbe essere notorio) gentile concessione del giacobinismo
francese. Insomma, un artificio che, per noi veneti, ha significato
l'abdicazione a mille e quattrocento anni di storia di popolo indipendente;
un popolo che forgiò persino un proprio diritto, plurisecolare,
ostinatamente rifiutando - unico in Europa - l'applicazione del diritto
romano.
Di questi passaggi i
veneti sono i primi responsabili, avendo svenduto la propria identità che
pur pareva fortissima in uno stato che, nel segno di San Marco rispettoso
di autonomie e tradizioni, si estendeva dal Po, all'Adda, all'Isonzo,
dall'Istria, alla Dalmazia, alle Ionie, laddove ancor oggi troneggiano
quelle che il Vate definì "le mura impresse del Leon corroso".
Ed ora che le massime
espressioni della sovranità, il batter moneta ed il governo dell'economia,
sono in mani sovranazionali, lo stato nazionale, che Romano definisce
"sempre più anacronistico e obsoleto", è in via di estinzione.
Le sue enormi falle
sono prodotte dall'esterno e dall'interno per ragioni ontologiche.
Nessun nemico alle
porte; solo lo sfacelo naturale di una forzatura in agonia.
La stessa sempre
crescente - e tumultuosamente crescente - domanda di autonomia costituisce
il segno di un processo irreversibile di erosione che solo ignoranza o
malafede non possono o vogliono riconoscere.
È un'erosione
carsica, di cui è testimone, in questi tempi, la sorda ma cruda lotta tra
regioni del nord e regioni del sud per questa finzione di autonomia nota
come federalismo fiscale; non a caso è una lotta di cui Il Gazzettino ci
informa dettagliatamente e che, invece, è totalmente silenziata dalla
maggior parte dei media italiani.
Non resta, dunque,
che guardare a quanto sta avvenendo in Scozia o in Catalogna, i cui eventi
spiegheranno comunque effetti trainanti su tutte le aree d'Europa che
rivendicano autonomia e, così, recuperare a piene mani quell'immenso tesoro
che è costituito dalla storia veneta, per farne il nuovo punto di partenza
del cammino di riscoperta delle radici negate.
Un tale processo
presuppone una nuova classe dirigente consapevole e capace di fare lobbie
culturale ed economica.
Ecco perché sono
entusiasta che un pezzo così importante del mondo accademico veneto, quale
il prof. Acquaviva autorevolmente rappresenta, incominci a muoversi con
decisione in questa direzione, che implica, tra le prime bisettrici, la
riscoperta della lingua.
Se alle nostre
generazioni, imbibite di retorica rinascimentale, non è stato concesso, i
nostri figli debbono sapere. Se non ora, quando?
Renzo Fogliata
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